Global Fine Art Awards: le mostre premiate

In tre anni le mostre forlivesi, organizzate dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con l’Amministrazione Comunale, sono state premiate due volte dal Global Fine Art Awards con l’oscar delle mostre.

Nel 2018, per la 5° edizione del premio, la mostra L’Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio vince nella categoria “Best Renaissance, Baroque, Old Masters, Dynasties – Group or Theme” superando il County Museum of Art (LACMA) di Los Angeles, il Metropolitan Museum of Art di New York, Palazzo Pitti di Firenze e l’Hermitage di Amsterdam.
94 gli eventi artistici selezionati, provenienti da 6 continenti, 49 città e 31 paesi di tutto il mondo.

Nel 2020, per la 7° edizione, la mostra Ulisse. L’arte e il mito vince nella categoria “Best Ancient (BC – Approx 1200)” superando il British Museum di Londra, il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il Metropolitan Museum of Art di New York, il Louvre di Abu Dhabi, il Museu d’Arqueologia de Catalunya di Barcellona.
2.000 gli eventi artistici selezionati, sia di carattere tematico che monografico, provenienti da 5 continenti e 18 paesi di tutto il mondo. 116 i nominati.

Il prestigioso premio riconosce la qualità e il valore delle grandi mostre forlivesi a livello mondiale, e premia il lavoro svolto continuativamente in questi 16 anni dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. “Un risultato davvero importante per la Fondazione e per la città di Forlì, per aver creduto nel progetto culturale delle grandi mostre – dichiara il direttore generale delle mostre Gianfranco Brunelli – Un riconoscimento che va alla speciale qualità delle mostre, al valore culturale, alla creatività di un modello che eredita il rigore delle monografiche e lo amplia nel contesto storico-culturale”.

Il Global Fine Art Awards è un concorso internazionale d’arte che dal 2014 premia le mostre d’arte e le rassegne culturali più innovative e rilevanti dell’anno attraverso una giuria internazionale di curatori e storici dell’arte. La mission del programma GFAA è quella di sviluppare interesse e passione per le belle arti e di promuoverne il ruolo educativo nella società. Lo scopo è quello di elevare l'importanza e la pertinenza delle belle arti nel mondo di oggi: economicamente, socialmente e culturalmente.

"Celebrare grandi mostre - Considerate quanto duramente i professionisti museali lavorano per concepire e organizzare le loro mostre temporanee e le installazioni di arte e design, e anche quanti soldi spendono le loro istituzioni per allestirle e promuoverle. Ora chiedetevi: come si possono celebrare i migliori di questi progetti, dopo che le luci si sono spente e le opere in prestito sono tornate a casa? ... Stranamente, in un mondo brulicante di cerimonie di premiazione per ogni evento culturale apparentemente possibile, non esiste un programma che riconosca tali mostre. Fortunatamente, questa stimata squadra ha iniziato a creare i Global Fine Arts Awards."
Peter Trippi, Comitato consultivo GFAA e giudice emerito.

2023 - L'Arte della Moda. L'età dei sogni e delle rivoluzioni.1789-1968

La moda dipinta, ritratta, scolpita, realizzata dai grandi artisti. L’abito che modella, nasconde, dissimula o promette il corpo. L’abito come segno di potere, di ricchezza, di riconoscimento, di protesta. Cifra distintiva di uno stato sociale o identificativa di una generazione. La moda come opera e comportamento. L’arte come racconto e come sentimento del tempo.

Come in uno specchio, l’esposizione forlivese del 2023 mette in rapporto l’arte con la moda: dalla Rivoluzione Francese alla Pop Art, fino alla nostra contemporaneità. Oltre 200 capolavori d’arte e 100 abiti dialogano in una mostra imponente, con un allestimento unico al Museo Civico San Domenico di Forlì.

La sintesi tra opera d’arte e moda l’ha definita Oscar Wilde: «O si è un’opera d’arte o la si indossa». Tutta l’arte ha sottolineato l’intimo legame che da sempre c’è con la moda, entrambe sono unite dalla volontà di riformare la natura e trasformare il reale.

Se il legame tra abito e ruolo sociale è proprio di tutte le civiltà organizzate, il principio di cambiamento costante della moda è l’effetto di un lungo processo storico e segna l’avvio della modernità. Mostrare i segni della ricchezza e del potere, farsi vedere ed essere visti assume già con l’Ancien Régime e poi, con le Rivoluzioni nell’età borghese, un significato programmatico e comunicativo. La moda si colloca al centro del potere e della sua comunicazione, della società e dei suoi segni simbolici. Sinonimo di lusso e seduzione, essa è specchio delle contraddizioni contemporanee, travestimento e arte dell’apparire, ma anche maschera e riflesso della crisi dell’io.

Cambiano gli stili e cambiano i materiali. Si aprono nuove produzioni. La ricerca dei materiali rivoluziona il mondo produttivo e quello commerciale fino alle attuali soluzioni tecnologiche. E con la diffusione cambiano i linguaggi e la comunicazione.

Ma è proprio la diffusione della moda che crea socialmente e culturalmente quella sua caratteristica bipolare che la caratterizzerà di lì in poi. Si tratta di elementi qualificanti che nelle forme dello stile sottolineano continuamente il passaggio tra trasgressione e omologazione, rottura e consenso, lineare e sontuoso, policromo e monocromo, natura e artificio, organico e inorganico, superfice e profondità, differenza e identificazione, per riprendere alcune delle antinomie di pensatori come Georg Simmel e Walter Benjamin.

L’arte ne è lo specchio e l’ispirazione, l’espressione e la diffusione dei modelli. Spesso la creazione stessa. Dalla fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento il rapporto tra artisti e moda si fa più intenso: artisti che oltre a ritrarre l’eleganza, disegnano abiti e gestiscono la comunicazione della moda, stilisti che collezionano opere d’arte e ne fanno oggetto di ispirazione o il simbolo della propria contemporaneità.

Il rapporto tra arte e moda va da quel momento incrementandosi in un gioco delle parti che porterà la moda stessa a diventare un’arte, uno sguardo sulle cose del mondo come la filosofia, la letteratura, il cinema, e a ispirarsi all’arte stessa, in rimandi che dal secondo Novecento fanno dell’intera storia dell’arte, un riferimento costante, imprescindibile, soprattutto per il made in Italy.

Come ha sostenuto Mondrian, “La moda non è soltanto lo specchio fedele di un’epoca, bensì anche una fra le espressioni plastiche più dirette della cultura umana”.

Ideata e realizzata dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì e il Museo Civico San Domenico, la mostra diretta da Gianfranco Brunelli e curata da Cristina Acidini, Enrico Colle, Fabiana Giacomotti e Fernando Mazzocca, si avvale altresì del lavoro del prestigioso comitato scientifico presieduto ad honorem da Antonio Paolucci e composto da Marco Antonio Bazzocchi, Silvia Casagrande, Simona Di Marco, Fabriano Fabbri, Mario Finazzi, Gioia Mori, Francesco Parisi, Paola Refice, Giorgio Restelli, Stefania Ricci, Ines Richter, Chiara Squarcina, Ulisse Tramonti.

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2022 - Maddalena. Il Mistero e l'Immagine

Chi era davvero la Maddalena? Perché si è sviluppata quella confusa, affascinante sequenza di rappresentazioni che hanno portato alla costruzione della sua sfaccettata identità? A lei la Letteratura e il Cinema hanno dedicato centinaia di opere ed eventi, così come l’Arte, ponendola al centro della propria produzione, ha dato vita a capolavori che hanno segnato, nel corso dei secoli, la storia stessa dell’arte e i suoi sviluppi.

La sua fortuna artistica, a partire dal Medioevo fino ad arrivare a noi, si è andata arricchendo di elementi leggendari, mutuati anche dallo sviluppo della devozione nei suoi confronti. Ella è stata così volta a volta, peccatrice, santa, cortigiana e penitente, intellettuale e apostola. Sempre amante. A fianco di San Francesco nella riforma mendicante del Duecento e Trecento, dama cortese nel Quattrocento, e venere cristiana a partire dal Cinquecento e lungo i secoli successivi, fino a simboleggiare la rivoluzione femminile nell’Ottocento e nel Novecento. Il “secolo breve” la vede anche come emblema del dolore e della protesta.

Il percorso espositivo di Maddalena. Il mistero e l’immagine si sviluppa in 12 sezioni che comprendono straordinari esempi di pittura, scultura, miniature, arazzi, argenti e opere grafiche, dal Cratere apulo con morte di Meleagro (360-340 a.C. ca.) del Museo Archeologico di Napoli a La deposizione dalla croce (1968-1976) di Marc Chagall del Centre Pompidou di Parigi; dal Noli me Tangere del Veronese proveniente dal Musée de Grenoble a quello di Graham Vivian Sutherland della Pallant House Gallery di Chichester. Tra le opere in mostra anche Acceptance di Bill Viola e alcuni capolavori di Antonio Canova e Francesco Hayez che più volte si dedicarono a questo soggetto.

La mostra attraversa millenni di fascinazione per la figura della Maddalena e la sua trasformazione nel corso dei secoli grazie alle interpretazioni che ne diedero i più importanti artisti di ogni epoca, che ne aggiornarono la leggenda e le sue letture. Tra le opere in mostra ricordiamo quelle di Donatello, Andrea Della Robbia, Giovanni Bellini, Tiziano Vecellio, il Tintoretto, Annibale Carracci, Lorenzo Lippi, Guercino, Artemisia Gentileschi, Guido Reni, Anthon Raphael Mengs, Jòzef Wall, Eugène Delacroix, Arnold Böcklin, Gaetano Previati, Fausto Melotti, Giorgio De Chirico e Renato Guttuso, solo per citarne alcuni.

Nel percorso di mostra, inoltre, entra per la prima volta, in piena coerenza con il tema dell’esposizione, un’ala al primo piano della pinacoteca civica, nella quale è possibile ammirare due magnifici arazzi cinquecenteschi, rari esemplari di manifattura fiamminga.

Maddalena. Il mistero e l’immagine disegna anche un viaggio trasversale attraverso la mappa dei prestiti, che comprende, tra gli altri, il Museo d'Orsay di Parigi, l’Hamburger Kunsthalle di Amburgo, il Musée des Beaux Arts di Nantes, il Centraal Museum di Utrecht, il Rijksmuseum di Amsterdam, l’Alte Kunst Gallery di Vienna, il Bayerische Staatsgemäldesammlungen - Neue Pinakothek di Monaco, The San Diego Museum of Art, il Sursock Palace di Beirut.

A questi si affiancano i prestigiosi prestatori italiani, come la Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea e la Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma, la Galleria d’ Arte Moderna e Pinacoteca Ambrosiana di Milano, l’Accademia di Belle Arti di Bologna, le Gallerie dell'Accademia di Venezia, le Gallerie degli Uffizi di Firenze, il Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli e i Musei Vaticani.

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2021 - Dante. La visione dell'arte

Un viaggio nella storia dell’arte tra Medioevo ed età contemporanea, con oltre duecento capolavori selezionati dal Duecento al Novecento: da Giotto, Lorenzo Lotto, Michelangelo, Tintoretto, fino ad arrivare a Casorati, Sartorio e tanti altri maestri del secolo scorso.
Con Dante. La visione dell’arte la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì e le Gallerie degli Uffizi, nell’ambito delle celebrazioni promosse dal Ministero della Cultura, racconteranno a 360 gradi la figura del Sommo Poeta, nel 7° centenario della sua morte.
Frutto di un robusto sodalizio tra i due enti, l’esposizione non è solo occasione per dare corpo all’anniversario dantesco: nel momento difficile che il mondo intero sta vivendo intende rappresentare anche un simbolo di riscatto e di rinascita, non solo del nostro Paese ma del mondo dell’arte e dello spirito di cultura e civiltà che essa rappresenta.  
Il progetto nasce da un’idea di Eike Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi, e di Gianfranco Brunelli, Direttore delle grandi mostre della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. Curatori della mostra sono il Professor Antonio Paolucci e il Professor Fernando Mazzocca, coadiuvati da un prestigioso comitato scientifico.
La scelta di Forlì come scenario dell’esposizione è parte di una strategia di valorizzazione di un luogo e di un territorio che non costituisce solo un ponte naturale tra Toscana ed Emilia-Romagna. Forlì è città dantesca. A Forlì Dante trovò rifugio, lasciata Arezzo, nell’autunno del 1302, presso gli Ordelaffi, signori ghibellini della città. A Forlì fece ritorno, occasionalmente, anche in seguito.
La mostra affronta un arco temporale che va dal Duecento al Novecento.  Per la prima volta l’intimo rapporto tra Dante e l’arte viene interamente analizzato e ricostruito, presentando gli artisti che si sono cimentati nella grande sfida di rendere in immagini la potenza visionaria di Dante, delle sue opere, ed in particolare della Divina Commedia, che hanno trattato tematiche simili a quelle dantesche, o ancora che hanno tratto da lui episodi o personaggi singoli sganciandoli dall’intera vicenda e facendoli vivere in sé.
Circa cinquanta, tra dipinti, sculture e disegni, le opere delle Gallerie degli Uffizi, coorganizzatrici del grande evento espositivo, che arricchiscono il percorso espositivo. Tra queste, un corpus di disegni a tema di Michelangelo e di Zuccari. I celebri ritratti del Poeta di Andrea del Castagno e di Cristofano dell’Altissimo. E poi l’Ottocento con Nicola Monti, Pio Fedi, Giuseppe Sabatelli, Raffaello Sorbi e il capolavoro di Vogel von Volgestein, Episodi della Divina Commedia.
Non solo gli Uffizi hanno aperto i loro ‘scrigni danteschi’, per la mostra arriveranno prestiti dall’Ermitage di San Pietroburgo, dalla Walker Art Gallery di Liverpool, dalla National Gallery di Sofia, dalla Staatliche Kunstsammlungen di Dresda, dal Museum of Art di Toledo, dai Musée des Beaux-Art di Nancy, Tours e Anger; e poi dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dalla Galleria Borghese, dai Musei Vaticani, dal Museo di Capodimonte, solo per citarne alcuni.  
Con uno stile magniloquente e antologico, l’esposizione condurrà il visitatore alla scoperta della crescente leggenda di Dante attraverso i secoli. La prima fortuna critica del Poeta verrà mostrata attraverso le più antiche edizioni della Commedia e alcuni dei più importanti Codici miniati del XIV e XV secolo. Apposite sezioni saranno dedicate alla sua fama nella stagione rinascimentale, alla riscoperta neoclassica e preromantica del suo genio, alle interpretazioni romantiche e novecentesche della sua opera ed eredità; capitoli a parte verranno dedicati all’ampia e fortunata ritrattistica dedicata all’Alighieri nella storia dell’arte, al tema del rapporto tra Dante e la cultura classica, alla figura di Beatrice, che il Poeta eleva ad emblema del rinnovamento dell’arte e delle sue stesse positive passioni.
Protagonisti della mostra saranno anche le molteplici raffigurazioni che alcuni tra i più grandi artisti hanno offerto nel corso della storia della narrazione dantesca del Giudizio universale, dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. Il percorso si concluderà con capolavori ispirati, nella loro composizione, al XXXIII canto del Paradiso.

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2020 - Ulisse. L'arte e il mito

Il più grande viaggio dell’arte mai raccontato

Quanti Ulisse! E quante Odissee! Il protagonista dell’Odissea è il più antico e il più moderno personaggio della letteratura occidentale. Egli getta un’ombra lunga sull’immaginario dell’uomo, in ogni tempo. L’arte ne ha espresso e reinterpretato costantemente il mito. Raccontare di Ulisse ha significato raccontare di sé, da ogni riva del tempo e raccontarlo utilizzando i propri alfabeti simbolici, la propria forma artistica, attribuendogli il significato del momento storico e del proprio sistema di valori.
Dall’Odissea alla Commedia dantesca, da Tennyson a Joyce e a tutto il Novecento, di volta in volta, Ulisse è l’eroe dell’esperienza umana, della sopportazione, dell’intelligenza, della parola, della conoscenza, della sopravvivenza e dell’inganno. E’ “l’uomo dalle molte astuzie e “dalle molte forme”.
Dopo la Guerra di Troia, quando affronta le sue avventure nel viaggio del lungo ritorno, egli è già un personaggio famoso. Ma quel viaggio è anche la faticosa riconquista di sé, della propria identità, attraverso il recupero narrativo della sua vicenda alla corte di Alcinoo, attraverso la memoria del ritorno. Così come accade all’arte, che narra narrandosi, che racconta l’oggetto e la sua forma stilistica.
La nuova grande esposizione ai Musei San Domenico di Forlì presenta oltre 200 opere tra le più significative di ogni tempo. Dall’antico al Novecento. Pittura, scultura, miniature, mosaici, ceramiche, arazzi e opere grafiche ricomprendono il viaggio di Ulisse come viaggio dell’arte.
Fin dall'antichità gli artisti non hanno cercato di illustrare in forma puramente didascalica l’intera Odissea. Se l’età arcaica privilegia gli episodi di Polifemo, di Circe, di Scilla e delle Sirene, l’età classica aggiunge gli incontri e i riconoscimenti: l’incontro con Tiresia, Atena, Nausicaa e Telemaco, il dolore e l’inganno della tela di Penelope, il riconoscimento della nutrice Euriclea, la strage dei Proci. L’ellenismo aggiunge l’incontro domestico e commovente con il cane Argo, l’abbraccio e il riconoscimento tra Ulisse e Penelope, l’arte romana infine, oltre a ripetere i modelli precedenti, raffigura, quale epilogo consolatorio, l’abbraccio tra Ulisse e il padre Laerte. L’arte antica non è interessata a mettere in scena il poema epico, quanto un uomo che attraverso le sue molteplici e dolorose esperienze ha imparato a conoscere se stesso.
Dante, che scrive 2000 anni dopo Omero, usa gli autori latini che sottolineano le qualità di Ulisse. Così nel canto XXVI dell’Inferno egli conferisce a Ulisse una nuova e diversa centralità. L’Ulisse di Dante non è spinto dalla nostalgia del ritorno, né, come l’Enea virgiliano, è mosso da una missione, egli è un viandante spinto dall’ardore “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, e si lancia “per altro mare aperto”, verso il “folle volo”.
L’influsso di Dante sull’arte non riguarda solo codici e miniature, capitelli e disegni, ma giunge fino ad artisti come Botticelli e la sua rilettura illustrata della Commedia, Signorelli e Federico Zuccari, per poi immergersi in un lungo silenzio fino a William Blake e all’Ottocento. Mentre le narrazioni omeriche sopravvivono nei cassoni fiorentini dipinti del Quattrocento, che appartengono ancora al gusto epico-cortese, con pittori come lo Scheggia e Apollonio di Giovanni. Per rifiorire poi nei disegni e nelle opere di Filippino Lippi o del Parmigianino.
Le diverse interpretazioni della figura di Ulisse si fanno sentire anche nei cicli figurativi del Cinquecento, che si diffondono nelle regge e nei palazzi di mezza Europa. Con un carattere non solo illustrativo o decorativo, ma in una sintesi integrata tra valori formali e valori morali espressi da artisti quali Nicolò dell’Abate, Primaticcio fino alle tele di Beccafumi, Dossi, Spranger. In questo ambito Ulisse è l’uomo virtuoso che affronta e vince le prove, personali e pubbliche. Il Seicento di Rubens, Lorrain, Jordaens, Cornelis, tra natura e teatro ne raffigura e diffonde il mito fin nelle manifatture.
Col classicismo di Canova, Mengs e Füssli, il Settecento _ anche per la ripresa degli studi omerici e delle nuove scoperte archeologiche _ si mostra come un secolo omerico, mentre il romanticismo di Hayez avvia un ulteriore rinnovamento. Il XIX secolo ritrova nel mito del viaggiatore e del viandante (da Foscolo a Tennyson, dal Romanticismo a Nietzsche), qualcosa di odissiaco nel destino dell’uomo moderno. I Preraffaelliti, e in generale le inquietudini allusive del Simbolismo, attraverso le raffigurazioni di soggetti quali Calipso, Circe, Penelope o le Sirene vagheggiano la visione onirica di un mondo che oramai sfugge al desiderio di bellezza ed è sopraffatto dalla realtà quotidiana, ma non rinunciano a un contenuto artistico che trascenda l’esperienza ordinaria e porti l’esistenza quotidiana dell’individuo su un piano universale.
Il XX secolo _ sulla scorta dei capolavori letterari di Eliot, Kafka, Pascoli, Pavese, Primo Levi, Kavafis e soprattutto l’Ulisses di Joyce _ fa di Ulisse il prototipo dell’uomo contemporaneo: inquieto, alienato, irrimediabilmente diviso nel proprio io. Per questo più che un ritorno integrale al mito, al suo racconto, l’arte celebra ritratti isolati e parziali dell’eroe. Frammenti. Da Böcklin a De Chirico, da Savinio a Cagli, da Meštrović a Martini, assistiamo alla definizione di un’arte come ricerca e rappresentazione di un varco, di una via d’uscita possibile che altrimenti si nega all’eroe divenuto uomo.
L’Ulisse del Novecento non riesce di fatto a ritrovare Itaca. Il suo ricordo del ritorno si è perduto. E «scordare il ritorno», significa scordare la forma del proprio destino. Il viaggio attraverso un universo così straordinariamente ricco e diversificato, che questa mostra propone, consente di cogliere i tratti più caratteristici di singoli segmenti della tradizione figurativa, nonché il rispecchiamento della propria ricerca esistenziale tra poesia e storia.

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2019 - Ottocento. L'arte dell'Italia tra Hayez e Segantini

La mostra forlivese ai Musei San Domenico del 2019 si occuperà della grande arte italiana dell’Ottocento nel periodo che intercorre tra l’ultima fase del Romanticismo e le sperimentazioni artistiche del nuovo secolo, tra l’Unità d’Italia e la Grande Guerra.
La locuzione attribuita a uno dei protagonisti del nostro Risorgimento, Massimo d’Azeglio, «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», rimane in sé un’espressione chiave di riflessione sulla nostra storia: come sia stata costruita e creata l’identità nazionale negli anni che hanno fatto seguito all’Unità d’Italia, come sia stata raffigurata l’autobiografia di una nazione, come gli italiani, prima divisi in diverse realtà politiche, sociali e culturali locali, abbiano vissuto l’aspirazione e la realtà di diventare un solo popolo, condividendo una storia comune.
Ricostruire attraverso la pittura e la scultura le vicende dell’arte italiana nel mezzo secolo che ha preceduto la rivoluzione del Futurismo consente di capire criticamente come l’arte sia stata non solo un efficace strumento celebrativo e mediatico per creare consenso, ma anche il mezzo più popolare per far conoscere agli italiani i percorsi esaltanti e contraddittori di una storia antica e recente caratterizzata da slanci comuni e da forti tensioni e divisioni. L’arte è stata un formidabile laboratorio per far conoscere e riscoprire le meraviglie naturalistiche del “bel paese” e quelle artistiche delle città che le esigenze della modernità stavano irrimediabilmente trasformando, per presentare la varietà e il fascino degli usi e costumi delle diverse identità locali, per trasmettere l’eccellenza di tecniche artistiche di epoca rinascimentale, ancora richieste in tutto il mondo.
Grazie a una selezione di opere eccellenti le sezioni della mostra forlivese ricostruiranno, attraverso un viaggio immersivo nel tempo e nello spazio, i percorsi dei diversi generi: quello storico, la rappresentazione della vita moderna, l’arte di denuncia sociale, il ritratto, il paesaggio e la veduta, temi culturali e sociali nuovissimi, di impatto popolare e dal significato universale.
La varietà dei linguaggi con cui sono stati rappresentati consentiranno di ripercorrere le sperimentazioni stilistiche che hanno caratterizzato il corso dell’arte italiana nella seconda metà dell’Ottocento e alle soglie del nuovo secolo, in una coinvolgente dialettica tra tradizione e modernità. Si passerà dall’ultima fase del Romanticismo e del Purismo al Realismo, dall’Eclettismo storicista al Simbolismo, dal Neorinascimento al Divisionismo presentando i capolavori, molti dei quali ancora da riscoprire, dei protagonisti di quei tormentati decenni.
L’esposizione presenterà anche una sezione sulla mostra fiorentina Ritratto italiano dalla fine del secolo XVI all’anno 1861, che a Palazzo Vecchio nel 1911, in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia, propose una straordinaria narrazione di come si fosse delineata l’immagine degli italiani nei secoli precedenti l’unità nazionale, attraverso la testimonianza di un genere meno vincolato alle regole quale il ritratto. Per evocare questa epocale rassegna la mostra ai Musei San Domenico presenterà per la prima volta un confronto tra alcuni capolavori esposti allora a Firenze e i nuovi protagonisti della scena artistica dell’epoca.
A Forlì saranno presenti, nella loro più importante produzione, pittori come Induno, Molmenti, Faruffini, Maccari, Muzzioli, Costa, Fattori, Signorini, Ciseri, Corcos, Michetti, Lojacono, Previati, Morbelli, Nomellini, Tito, Sartorio, De Nittis, Pellizza da Volpedo, Boccioni, Balla; e scultori come Vela, Cecioni, Monteverde, Gemito, Canonica, Bistolfi e Medardo Rosso.
I due fuochi, iniziale e finale del percorso espositivo, Francesco Hayez e Giovanni Segantini, tracciano un confine simbolico tra il recupero della classicità e il rinnovamento di un secolo.
Hayez è il primo e l’ultimo dei romantici, è il pittore protagonista del Risorgimento dell’arte italiana, colui che ha saputo elaborare un modello figurativo nazionale nella forma della pittura europea rimeditando i canoni del Cinquecento e del Seicento attraverso la lezione di Raffaello, Tiziano, Reni e Tiepolo.
Segantini, dopo il primo confronto con Millet, si allinea progressivamente con i grandi europei post-impressionisti vivendo pienamente la rivoluzione moderna del Divisionismo, che in mostra sarà evocata anche dalle opere di Pellizza da Volpedo, Previati e Michetti.
Se il veneziano Hayez fa di Milano, vera capitale culturale dell’Ottocento italiano, il luogo di elezione della sua rivoluzionaria militanza artistica, Segantini sceglie, invece, l’anfiteatro eterno, intatto, epico delle Alpi per le sue innovative rappresentazioni volte alla ricerca della luce attraverso il divisionismo dei colori che gli permette di costruire la sua personalissima trama della modernità.
All’inizio e alla fine del Secolo, entrambi sono pittori del rinnovamento dell’arte italiana. Se Hayez viene consacrato da Mazzini pittore della nazione, Segantini avrà da D’Annunzio, nella sua Ode in morte del pittore, analogo alto riconoscimento.

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2018 - L'Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio

Tra il Rinascimento e il Barocco. La grande mostra al San Domenico di Forlì
del 2018 mette in scena per la prima volta in maniera compiuta e in un nuovo percorso espositivo il fascino di un secolo compreso tra un superbo
tramonto, l’ultimo Rinascimento, e un nuovo luministico orizzonte, l’età barocca.
Il periodo che intercorre tra il compimento del Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina (1541) e la breve affermazione a Roma di Michelangelo Merisi da Caravaggio è per la storia dell’arte uno dei più avvincenti e stimolanti.
La pittura della Maniera aveva messo in campo le ragioni di un’“arte per l’arte”, in cui a prevalere erano il capriccio e la “licenza”, ovvero una sorta di trasgressione che stesse dentro alla regola: un’arte colta, rivolta a una ristretta élite in grado di compiacersi del gioco di sottili rimandi ai grandi modelli di Raffaello e di Michelangelo, sentiti come insuperabili.
A mettere in crisi questo modo di intendere l’arte era stata la polemica dei riformatori protestanti che, contro il lusso della corte pontificia, si richiamavano al rigore della Chiesa delle origini. Ma, ancora prima che il Concilio di Trento teorizzasse il valore didattico delle immagini – “da venerare secondo ciò che rappresentano”, sventando così il rischio iconoclasta – gli artisti avevano autonomamente elaborato una nuova figurazione in cui le esigenze del racconto prevalessero sullo sfoggio di un virtuosismo fine a sé stesso.

Nella stessa Roma si erano per tempo avvertiti segnali di ritorno a una nuova concentrazione sul tema del sacro. La vicenda umana e artistica di Michelangelo appare sintomatica se proprio la sua aspirazione a una figurazione rigorosa e spogliata di ogni orpello aveva finito per attrarre su di sé gli strali di quanti vedevano nell’essenzialità del nudo un’offesa al decoro. La sua meditazione, compresa da pochi, aveva così offerto il destro alle polemiche
più feroci, caratterizzando la malinconica ricerca spirituale dei suoi ultimi anni.
Già prima della metà del secolo Roma si propone come centro di elaborazione di nuovi percorsi, di cui la mostra evidenzia la ricca eterogeneità. Paolo III Farnese, che nel 1545 indice il Concilio di Trento, è a capo di una vera e propria corte alla stregua di quelle europee. Per lui lavorano artisti come El Greco e Giovanni de’ Vecchi, promotori di una ventata neo-mistica, e architetti come Antonio da Sangallo il Giovane e il Vignola, che mutuando
linguaggi dallo studio dell’antico elaborano una nuova concezione spaziale.
Il fervore costruttivo alimenta la richiesta di nuove opere sacre, concepite in ordine a una nuova leggibilità e a un diffuso sentimento di pietà. E mentre artisti come Girolamo Muziano e Federico Zuccari sapranno farsi interpreti di una narrazione didascalica, nella quale la pittura torna a farsi “libro illustrato” per gli illetterati, sarà Federico Barocci a coniugare, grazie alla riscoperta di Correggio, fervore religioso e sentimentalità prebarocca.

Parallelamente lo scrupolo di attenersi al “vero”, al “verosimile” finisce per sviluppare una ripresa dell’autonomia degli studi storici e di quelli naturalistici. La ricerca scientifica e l’osservazione della natura di studiosi come Aldrovandi e Ligozzi forniscono l’ordito al nuovo, incipiente naturalismo.
Bologna, seconda capitale dello Stato della Chiesa, sul finire del secolo vede fiorire di nuovi sensi terreni la pittura dei Carracci (Ludovico, Annibale e Agostino) alla quale fa da contraltare a Roma l’arte “senza tempo” di Pulzone e Valeriano. Dalla Lombardia discende Caravaggio. Egli descrive nella sua luce che contorna l’ombra e che trascorre dagli uomini alle cose, un nuovo, disperato rigore. La sua vocazione pauperista si confronta, tra la fine del vecchio e l’aprirsi del nuovo secolo, con il classicismo patetico di Annibale Carracci e il dinamismo barocco di Rubens.
Dall’ultimo Michelangelo a Caravaggio, l’esposizione forlivese tesse un filo estetico di rimandi unici che illustra la nascita dell’età moderna. Un percorso unico che mostra capolavori di Raffaello, Rosso Fiorentino, Lorenzo Lotto, Pontormo, Sebastiano del Piombo, Correggio, Bronzino, Vasari, Parmigianino, Daniele da Volterra, El Greco, i Carracci, Barocci, Veronese, Tiziano, Zuccari, Reni e Rubens.
Tra i due Michelangelo si snoda un percorso culturale innovativo, alla ricerca di un rispecchiamento tra i valori eterni e quelli storici. E se nel primo si dissolve ogni idea o ideale di compiutezza umana e terrena; nel secondo, una umanità intrisa di peccato, scalza e sporca bussa alle porte del cielo.

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2017 - Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia

Un gusto, una fascinazione, un linguaggio che ha caratterizzato la produzione artistica italiana ed europea negli anni Venti, con esiti soprattutto americani dopo il 1929. Ciò che per tutti corrisponde alla definizione Art Déco fu uno stile di vita eclettico, mondano, internazionale. Il successo di questo momento del gusto va riconosciuto nella ricerca del lusso e di una piacevolezza del vivere, tanto più intensi quanto effimeri, messa in campo dalla borghesia europea dopo la dissoluzione, nella Grande guerra, degli ultimi miti ottocenteschi e la mimesi della realtà industriale, con la logica dei suoi processi produttivi. Dieci anni sfrenati, “ruggenti” come si disse, della grande borghesia internazionale, mentre la storia disegnava, tra guerra, rivoluzioni e inflazione, l’orizzonte cupo dei totalitarismi.
 
Dopo le grandi mostre dedicate a Novecento e al Liberty, nel 2017 Forlì dedica una grande esposizione all’Art Déco italiana.
La relazione con il Liberty, che lo precede cronologicamente, fu dapprima di continuità, poi di superamento, fino alla contrapposizione. La differenza tra l’idealismo dell’Art Nouveau e il razionalismo del Déco appare sostanziale. L'idea stessa di modernità, la produzione industriale dell’oggetto artistico, il concetto di bellezza nella quotidianità mutano radicalmente: con il superamento della linea flessuosa, serpentina e asimmetrica legata ad una concezione simbolista che vedeva nella natura vegetale e animale le leggi fondamentali dell’universo, nasce un nuovo linguaggio artistico. La spinta vitalistica delle avanguardie storiche, la rivoluzione industriale sostituiscono al mito della natura, lo spirito della macchina, le geometrie degli ingranaggi, le forme prismatiche dei grattaceli, le luci artificiali della città.
Nell’ambito di una riscoperta recente della cultura e dell’arte negli anni Venti e, segnatamente, di quel particolare gusto definito “Stile 1925”, dall’anno della nota Esposizione universale di Parigi dedicata alle Arts Décoratifs, da cui la fortunata formula Art Déco, che ne sancì morfologie e modelli, nasce l’idea di una mostra che proponga immagini e riletture di una serie di avvenimenti storico-culturali e di fenomeni artistici che hanno attraversato l’Italia e l'Europa nel periodo compreso tra il primo dopoguerra e la crisi mondiale del 1929, assumendo via via declinazioni e caratteristiche nazionali, come mostrano non solo le numerosissime opere architettoniche, pittoriche e scultoree, ma soprattutto la straordinaria produzione di arti decorative.
Il gusto Déco fu lo stile delle sale cinematografiche, delle stazioni ferroviarie, dei teatri, dei transatlantici, dei palazzi pubblici, delle grandi residenze borghesi: si trattò, soprattutto, di un formulario stilistico, dai tratti chiaramente riconoscibili, che ha influenzato a livelli diversi tutta la produzione di arti decorative, dagli arredi alle ceramiche, dai vetri ai ferri battuti, dall'oreficeria ai tessuti alla moda negli anni Venti e nei primissimi anni Trenta, così come la forma delle automobili, la cartellonistica pubblicitaria, la scultura e la pittura in funzione decorativa.
 
Le ragioni di questo nuovo sistema espressivo e di gusto si riconoscono in diversi movimenti di avanguardia (le Secessioni mitteleuropee, il Cubismo e il Fauvismo, il Futurismo), mentre tra i protagonisti internazionali del gusto vanno menzionati almeno i nomi di Ruhlmann, Lalique, Dupas, così come la ritrattistica aristocratica e mondana di Tamara de Lempicka e le sculture di Chiparus, che alimenta il mito della danzatrice Isadora Duncan.
Ma la mostra ha soprattutto una declinazione italiana, dando ragione delle biennali internazionali di arti decorative di Monza del 1923, del 1925, del 1927 e del 1930, oltre naturalmente dell’expo di Parigi 1925 e 1931 e di Barcellona 1929.  Il fenomeno Déco attraversò con una forza dirompente il decennio 1919-1929 con arredi, ceramiche, vetri, metalli lavorati, tessuti, bronzi, stucchi, gioielli, argenti, abiti impersonando il vigore dell'alta produzione artigianale e proto industriale e contribuendo alla nascita del design e del “Made in Italy”.
 
La richiesta di un mercato sempre più assetato di novità, ma allo stesso tempo nostalgico della tradizione dell'artigianato artistico italiano, aveva fatto letteralmente esplodere negli anni Venti una produzione straordinaria di oggetti e di forme decorative: dagli impianti di illuminazione di Zecchin, di Venini e della Fontana Arte di Pietro Chiesa, alle ceramiche di Gio Ponti e Guido Andlovitz, dalle sculture di Adolfo Wildt, Arturo Martini e Libero Andreotti, alle ceramiche Lenci o alle originalissime sculture di Sirio Tofanari, dalle bizantine oreficerie di Ravasco, agli arredi di Buzzi, Ponti e Portaluppi, dalle sete preziose di Ravasi, Ratti e Fortuny ai moderni figurini di Thayath per Madeleine Vionnet, come agli arazzi in panno di Depero.
Obiettivo dell’esposizione è mostrare al pubblico il livello qualitativo, l'originalità e l'importanza che le arti decorative moderne hanno avuto nella cultura artistica italiana connotando profondamente i caratteri del Déco anche in relazione alle arti figurative: la pittura e la scultura. Sono qui essenziali i racconti delle opere di Galileo Chini, pittore e ceramista, affiancato da grandi maestri, come Vittorio Zecchin e Guido Andlovitz, che guardarono a Klimt e alla Secessione viennese; dei maestri faentini Domenico Rambelli, Francesco Nonni e Pietro Melandri; le invenzioni del secondo futurismo di Fortunato Depero; i dipinti, tra gli altri, di Felice Casorati, Alberto Martini, Cagnaccio di San Pietro, Amedeo Bocchi, Luigi Bonazza, Anselmo Bucci, Giannino Marchig, Ubaldo Oppi, il tutto accompagnato dalla straordinaria produzione della Richard-Ginori ideata dall'architetto Gio Ponti e da emblematici esempi francesi, austriaci e tedeschi fino ad arrivare al passaggio di testimone, agli esordi degli anni Trenta, agli Stati Uniti e al Déco americano.
 
Non si è mai allestita in Italia una mostra completa dedicata a questo variegato mondo di invenzioni, che non solo produce affascinanti contaminazioni con il gusto moderno - si pensi per esempio al quartiere Coppedè a Roma o al Vittoriale degli Italiani, ultima residenza di Gabriele d'Annunzio - ma evoca atmosfere dal mondo mediterraneo della classicità, così come la scoperta nel 1922 della tomba di Tutankhamon rilanciò in Europa la moda dell’Egitto. E poi echi persiani, giapponesi, africani a suggerire lontananze e alterità, sogni e fughe dal quotidiano, in un continuo e illusorio andirivieni dalla modernità alla storia.

Trattandosi di un gusto e di uno stile di vita non mancarono influenze e corrispondenze col cinema, il teatro, la letteratura, le riviste, la moda, la musica. Da Hollywood (con le Parade di Lloyd Bacon o le dive, come Greta Garbo e Marlene Dietrich o divi come Rodolfo Valentino) alle pagine indimenticabili de Il grande Gatsby (1925), di Francis Scott Fitzgerald, a Gabriele d’Annunzio.

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2016 - Piero Della Francesca. Indagine su un mito

L’affascinante rispecchiamento tra critica e arte, tra ricerca storiografica e produzione artistica nell’arco di più di cinque secoli è il tema della mostra Piero della Francesca. Indagine su un mito. Dalla fortuna in vita  _ Luca Pacioli lo aveva definito “il monarca della pittura” _  all’oblio, alla riscoperta.

Alcuni dipinti di Piero, scelti per tracciare i termini della sua riscoperta, costituiscono il cuore dell'esposizione. Accanto ad essi figurano in mostra opere dei più grandi artisti del Rinascimento che consentono di definirne la formazione e poi il ruolo sulla pittura successiva.

Per illustrare la cultura pittorica fiorentina negli anni trenta e quaranta del Quattrocento, che vedono il pittore di Sansepolcro muovere i primi passi in campo artistico, saranno presenti opere di grande prestigio di Domenico Veneziano, Beato Angelico, Paolo Uccello e Andrea del Castagno, esponenti di punta della pittura post-masaccesca.

L'accuratezza prospettica di Paolo Uccello e l'enfasi plastica delle figure di Andrea del Castagno, la naturalezza della luce di Domenico Veneziano, l'incanto cromatico perseguito da Masolino e dall'Angelico, costituiscono una salda base di partenza per il giovane Piero. Ma la mostra vuol dar conto anche dei primi riflessi della pittura fiamminga, da cogliere negli affreschi del portoghese Giovanni di Consalvo, nei quali l'esattezza della costruzione prospettica convive con un'inedita attenzione per le luci e le ombre.

Gli spostamenti dell'artista tra Modena, Bologna, Rimini, Ferrara e Ancona determinano l’affermarsi di una cultura pierfrancescana nelle opere di artisti emiliani come Marco Zoppo, Francesco del Cossa, Cristoforo da Lendinara, Bartolomeo Bonascia. Importanti sono i suoi  influssi nelle Marche su Giovanni Angelo d'Antonio da Camerino e Nicola di Maestro Antonio; in Toscana, con Bartolomeo della Gatta e Luca Signorelli; e a Roma, con Melozzo da Forlì e Antoniazzo Romano. Ma l'importanza del ruolo di Piero è stata colta anche a Venezia, dove Giovanni Bellini e Antonello da Messina mostrano di essere venuti a conoscenza del suo mondo espressivo.

La mostra, aperta dal confronto, sempre citato ma fin’ora mai mostrato, tra la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca e la Silvana Cenni di Felice Casorati, dà conto della nascita moderna del suo "mito" anche attraverso gli scritti dei suoi principali interpreti: da Bernard Berenson a Roberto Longhi. 

La riscoperta ottocentesca di Piero della Francesca è affidata a importanti testimonianze: dai disegni di Johann Anton Ramboux alle straordinarie copie a grandezza naturale del ciclo di Arezzo eseguite da Charles Loyeux, fino alla fondamentale riscoperta inglese del primo Novecento, legata in particolare a Roger Fry, Duncan Grant e al Gruppo di Bloomsbury, di cui fece parte anche la scrittrice Virginia Woolf.

Il fascino degli affreschi di Arezzo sembra avvertirsi nella nuova solidità geometrica e nel ritmo spaziale di Edgar Degas. Un simile percorso di assimilazione lo si ritrova in pittori sperimentali e d’avanguardia come i Macchiaioli. Echi pierfrancescani risuonano in Seurat e Signac, nei percorsi del postimpressionismo, tra gli ultimi bagliori puristi di Puvis de Chavannes, le sperimentazioni metafisiche di Odilon Redon e, soprattutto, le vedute geometriche di Cézanne.

Il Novecento è per più aspetti il “secolo di Piero": per il costante incremento portato allo studio della sua opera, affascinante quanto misteriosa; e per la centralità che gli viene riconosciuta nel panorama del Rinascimento italiano. Contemporaneamente la sua opera è tenuta come modello da pittori che ne apprezzano di volta in volta l'astratto rigore formale e la norma geometrica, o l'incanto di una pittura rarefatta e sospesa, pronta a caricarsi di inquietanti significati. La fortuna novecentesca dell’artista è raccontata confrontando, tra gli altri, gli italiani Guidi, Carrà, Donghi, De Chirico, Casorati, Morandi, Funi, Campigli, Ferrazzi, Sironi con fondamentali artisti stranieri come Balthus e Hopper che hanno consegnato l’eredità di Piero alla piena e universale modernità.

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2015 - Boldini. Lo spettacolo della modernità

“C’est un classique!”. E’ questo il riconoscimento dato a Giovanni Boldini (Ferrara 1842 – Parigi 1931), fin dalla prima esposizione postuma che si tenne a Parigi a pochi mesi dalla morte. “Il classico di un genere di pittura”, ribadì in quella occasione Filippo de Pisis.

Dopo la rassegna dedicata nel 2012 a Wildt (che sarà protagonista nel 2015 di una mostra realizzata dal Musée d’Orsay all’Orangerie di Parigi in collaborazione con la Città di Forlì e la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì), e le due successive sul Novecento ed il Liberty, la Fondazione e i Musei di San Domenico di Forlì proseguono nella esplorazione, attraverso nuovi studi e la riscoperta di opere poco note, della cultura figurativa tra Otto e Novecento, proponendo per la stagione espositiva del 2015 una approfondita rivisitazione della vicenda di Giovanni Boldini certamente il più grande e prolifico tra gli artisti italiani residenti a Parigi. E’ in questo ideale spazio di rapporto tra Forlì e Parigi che si colloca la nostra nuova iniziativa.

Nella sua lunghissima carriera, caratterizzata da periodi tra loro diversi a testimonianza di un indiscutibile genio creativo e di un continuo slancio sperimentale che si andrà esaurendo alla vigilia della Pima Guerra Mondiale, il pittore ferrarese ha goduto di una straordinaria fortuna, pur suscitando spesso accese polemiche, tra la critica ed il pubblico. Amato e discusso dai suoi primi veri interlocutori, come Telemaco Signorini e Diego Martelli, fu poi compreso e adottato  negli anni del maggiore successo dalla Parigi più sofisticata, quella  dei fratelli  Goncourt e di Proust, di Degas e di Helleu, dell’esteta Montesquiou e della eccentrica Colette. Rispetto alle recenti mostre sull’artista, questa rassegna si differenzia per una visione più articolata e approfondita della sua multiforme attività creativa, intendendo valorizzare non solo i dipinti, ma anche la straordinaria produzione grafica, tra disegni, acquerelli e incisioni. Le ricerche più recenti di Francesca Dini (curatrice della mostra insieme a Fernando Mazzocca), consentono di arricchire il percorso con la presentazione di nuove opere,  sia sul versante pittorico che, in particolare,  su quello della grafica.

Uno di punti di maggior forza, se non quello decisivo, della mostra sarà la riconsiderazione della prima stagione di Boldini negli anni che vanno dal 1864 al 1870, trascorsi prevalentemente a Firenze a stretto contatto con i Macchiaioli. Questa fase, caratterizzata da una produzione di piccoli dipinti (soprattutto ritratti) davvero straordinari per qualità e originalità, sarà vista in una nuova luce grazie alla possibilità di presentareparte del magnifico ciclo di dipinti murali realizzati tra il 1866 e il 1868 nella Villa detta la “Falconiera”, a Collegigliato presso Pistoia, residenza della  famiglia inglese dei Falconer. Si tratta di vasti paesaggi toscani e di scene di vita agreste che consentono di avere una visione più completa del Boldini macchiaiolo.

Le prime sezioni, nelle sequenza delle sale al piano terra, saranno dedicate all'immagine dell’artista rievocata attraverso autoritratti e ritratti; alla biografia per immagini (persone e luoghi frequentati); all’atelier; alla grafica così rivelatrice della sua incessante creatività.

Le sezioni successive, al primo piano, dopo il ciclo della “Falconiera”, ripercorreranno attraverso i ritratti di amici e collezionisti la grande stagione macchiaiola.

Seguirà la prima fase successiva al definitivo trasferimento a Parigi, caratterizzata dalla produzione degli splendidi paesaggi e di dipinti di piccolo formato con scene di genere, legata al rapporto privilegiato con il celebre e potente mercante Goupil. 

Avranno subito dopo un grande rilievo, anche per la possibilità di proporre confronti con gli altri italiani attivi a Parigi, come De Nittis, Corcos, De Tivoli e Zandomenenghi, le scene di vita moderna, esterni ed interni, dove Boldini si afferma come uno dei maggiori interpreti della metropoli francese negli anni della sua inarrestabile ascesa come capitale mondiale dell’ arte, della cultura e della mondanità.

Seguiranno infine le sezioni dedicate alla grande ritrattistica che lo vedono diventare il protagonista in un genere, quello del ritratto mondano, destinato ad una straordinaria fortuna internazionale. A questo proposito costituirà una novità la possibilità di accostare per la prima volta ai suoi dipinti le sculture di Paolo Troubetzkoy in un confronto interessante sia sul piano iconografico che formale.
 

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2014 - Liberty. Uno stile per l'Italia moderna

Dopo le due rassegne dedicate a Wildt nel 2012 e al Novecento nel 2013, continua, da parte della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, l’impegno ad indagare protagonisti ed ambiti del Novecento italiano. Questa volta la mostra, prevista tra il 1° febbraio e il 15 giugno 2014 nella sede dei Musei San Domenico, intende esplorare la grande stagione del Liberty. Come per tutte le esposizioni realizzate a Forlì l’occasione è anche un preciso legame con il territorio, da cui il percorso si estende in un ambito nazionale. L’Emilia e la Romagna sono state infatti una delle più significative officine italiane del Liberty, un gusto, uno stile, ma anche un modo di vita, una visione del mondo, che ha dominato l’Europa nell’epoca esaltante, per il suo slancio di rinnovamento, tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale. Per l’Italia, il Liberty – definito con una terminologia comune Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania e Modern Style in Inghilterra – ha rappresentato una tendenza, un movimento di rinnovamento, nell’affermazione di un nuova estetica che rappresentasse, superando lo storicismo e il naturalismo che avevano dominato gran parte del secolo, le aspirazioni della modernità.

La forza dello stile  floreale, come venne anche chiamato, fu quella di creare un linguaggio e un’atmosfera comuni tra l’architettura e le varie arti, anche e particolarmente quelle applicate all’industria, la letteratura, il teatro e la musica. Il sogno, la magnifica utopia di una bellezza che fosse in grado di interpretare il mondo trasformato dal progresso tecnologico, vennero celebrati dalle grandi esposizioni, come quella nazionale di Palermo nel 1891-1892, dell’arte decorativa moderna di Torino del 1902 e del Sempione a Milano nel 1906, ma erano destinati ad infrangersi una prima volta, nel 1912, con la tragedia del Titanic e, definitivamente due anni dopo, con lo scoppio della Grande Guerra.  Il Liberty italiano è stato oggetto negli anni di ricerche, studi, operazione di restauro e valorizzazione, ma, nonostante alcune importanti rassegne che gli sono state dedicate, è mancata una grande mostra in grado di restituire l’identità di quello stile, le sue diverse formulazioni nell’applicazione alle varie arti e in particolare l’eccezionalità di quel clima irripetibile, pervaso dall’ottimismo ma anche dall’inquietudine espressi dalla modernità. La mostra indagherà l’origine del modello stilistico del Liberty, riconosciuto nella rilettura di uno dei grandi protagonisti del nostro Rinascimento: Botticelli. Così come andrà a lumeggiare le relazioni profonde e le contaminazioni con l’arte europea del periodo, in particolare le Secessioni. Le sale dei Musei San Domenico ospiteranno una mostra che cercherà di far dialogare, con un allestimento basato sui rimandi, i confronti, e gli effetti spettacolari, la pittura con la scultura e le arti decorative, dalle vetrate ai ferri battuti, ai mobili, agli oggetti d’arredo, ai tessuti ed ai gioielli. Evidenziando certi temi e alcune soluzioni formali, sarà possibile tracciare una linea comune tra i dipinti di Boldini, Previati, Nomellini, Baccarini, Kienerk, Grubicy de Dragon, Segantini, Pellizza da Volpedo, Longoni, Sartorio, De Carolis, Marussig, Zecchin, Chini, Casorati, Mucha, Boccioni, Dudreville, Innocenti, Bocchi, Viani e le sculture di Bistolfi,  Ximenes, Trentacoste, Canonica, Rubino, Andreotti, Wildt, Martini, le vetrate e i ferri battuti di Mazzucotelli e Bellotto, le ceramiche di Galileo Chini, Baccarini, Cambellotti, Spertini, Calzi, i manifesti di Dudovich, Terzi, Hohenstein, sottolineando, attraverso un apposito apparato grafico, i rapporti con la letteratura, tra D’Annunzio, Pascoli e Gozzano. Ma anche con la musica di Puccini, Mascagni e Ponchielli. Sarà dunque possibile sottolineare i molti punti di incontro, come nella ricorrente metamorforsi tra la figura umana, il mondo animale e quello vegetale,  tra Liberty e Simbolismo.  I confronti europei non potranno prescindere da autori come Klimt, Adler, Moser, Tiffany, Klinger, Boecklin, Van Stuck, Morris, Leighton.

La produzione di ceramiche d’arte, documentata ad altissimo livello dal maggior museo del genere esistente al mondo, il MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche) di Faenza, che sarà partner della mostra, è stato uno dei maggiori esiti del Liberty italiano. Sempre a Faenza, sua città d’origine, è legato un personaggio di livello europeo, Domenico Baccarini, figura chiave per il fatto di essere stato - come anche altri protagonisti tra cui Chini, Casorati, Cambellotti - un artista “totale”, impegnato sui diversi versanti della pittura, scultura, grafica e decorazione. Sempre a questo ambito di una progettazione artistica che comprende diversi settori va riferita l’attività della bolognese Aemilia Ars, diventata nella sua eccellenza uno dei maggiori laboratori del nuovo gusto. Da Ferrara veniva Previati, uno dei maggiori interpreti del Simbolismo italiano. La Cassa dei Risparmi di Forlì e della Romagna conserva nella sua sede storica uno straordinario capolavoro, il monumentale Cesare Borgia a Capua. Opportuni rimandi potranno inserire la mostra in un affascinante itinerario non limitato solo a Forlì e Faenza, ma esteso all’intera regione.

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2013 - Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre

Nel primo dopoguerra, da cui prende avvio la mostra per inoltrarsi fino all’epilogo tragico del secondo conflitto mondiale e del fatidico 1943, la cultura italiana, attraverso i suoi migliori esponenti, si sentì investita della missione di creare nuove espressioni artistiche per il Novecento, secolo che non si era in realtà ancora rivelato.
Il più lucido interprete di questa missione fu il letterato Massimo Bontempelli, che nel 1926 dando vita alla rivista “900” dichiarava: “Il Novecento ci ha messo molto a spuntare. L’Ottocento non poté finire che nel 1914. Il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra”.
La nuova esposizione ai Musei San Domenico intende rievocare un clima che ha visto non solo architetti, pittori e scultori, ma anche designer, grafici, pubblicitari, ebanisti, orafi, creatori di moda cimentarsi in un grande progetto comune che rispondeva, attraverso una profonda revisione del ruolo dell’artista, alle istanze del cosiddetto “ritorno all’ordine”.
Il Rappel à l’ordre, manifestatosi già durante gli anni della guerra, scaturiva dalla crisi delle avanguardie storiche, in particolare il Cubismo e il Futurismo, considerate l’ultima espressione di un processo di dissolvimento dell’ideale classico che era iniziato con il Romanticismo e si era accentuato con l’Impressionismo e i movimenti come il Divisionismo e il Simbolismo che lo avevano seguito.
Nasceva non come semplice ritorno al passato, ma come ripresa dei soli canoni ritenuti adatti alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica.
“Una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme”, per Carlo Carrà, mentre De Chirico concludeva il suo scritto programmatico sul ritorno della figura umana esclamando: “Pictor classicus sum”.
Il modello di una ritrovata armonia tra tradizione e modernità, sostenuto da questi artisti – tra cui ebbero un rilievo maggiore Felice Casorati, Achille Funi, Mario Sironi,Carlo Carrà, Adolfo Wildt e Arturo Martini – avrà, anche grazie allo spirito critico e organizzativo di Margherita Sarfatti, il sostegno da parte del regime che era alla ricerca della definizione di un’arte di Stato.
La mostra rievoca leprincipali occasioni in cui gli artisti si prestarono a celebrare l’ideologia e i miti proposti dal Fascismo, basti pensare all’architettura pubblica, alla pittura murale e alla scultura monumentale. Verranno documentate la I (1926) e la II (1929) Mostra del Novecento Italiano; la grande Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita a Roma nel 1932-1933 in occasione del decennale della marcia su Roma; la V Triennale di Milano (che vide la consacrazione della pittura murale intesa come arte nazionalpopolare volta a far rivivere una tradizione illustre); la rassegna dell’ E42 di Roma.
La pittura murale e la scultura monumentale, che furono con l’architettura l’espressione più significativa e riuscita di quel periodo, vengono indagate all’interno degli edifici pubblici, come i palazzi di giustizia, delle poste, delle università.
La considerazione delle più impegnative realizzazioni urbanistiche e architettoniche ci consente di capire quanto è stato realizzato anche a Forlì e in altri centri della Romagna.
La mostra presenta i grandi temi affrontati nel Ventennio dagli artisti che hanno aderito alle direttive del regime, partecipando ai concorsi e aggiudicandosi le commissioni pubbliche, e da coloro che hanno attraversato quel clima alla ricerca di un nuovo rapporto tra le esigenze della contemporaneità e la tradizione, tra l’arte e il pubblico.
La presenza di dipinti, sculture, cartoni per affreschi, opere di grafica, cartelloni murali, mobili, oggetti d’arredo, gioielli, abiti, intende offrire una visione a tutto tondo del rapporto tra le arti e le espressioni del costume e della vita, confrontando artisti e materiali diversi. L’obiettivo comune era, infatti, quello di ridefinire ogni aspetto della realtà e della vita, passando dal mito classico a una mitologia tutta contemporanea.
Il compito dell’artista, così lo sintetizza Bontempelli, diviene quello di “inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura”.
Attraverso i maggiori protagonisti (pittori come Severini, Casorati, Carrà, De Chirico, Balla, Depero, Oppi, Cagnaccio di San Pietro, Donghi, Dudreville, Dottori, Funi, Sironi, Campigli, Conti, Guidi, Ferrazzi, Prampolini, Sbisà, Soffici, Maccari, Rosai, Guttuso, e scultori come Martini, Andreotti, Biancini, Baroni, Thayaht, Messina, Manzù, Rambelli) risalterà la varietà delle esperienze tra Metafisica, Realismo Magico e le grandi mitologie del Novecento.
Questo superamento della pittura da cavalletto per recuperare il rapporto tra la pittura el’architettura significò il grande ritorno al Quattrocento italiano visto come fonte di ispirazione per gli artisti contemporanei.
Giotto, Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca per quel loro realismo preciso, avvolto in un'atmosfera di stupore lucido, appaiono particolarmente vicini.
Guardare al Quattrocento o all’antichità non significava recidere i legami con l’arte contemporanea europea, certo non con quegli artisti che, come Picasso e Derain, a partire dal secondo decennio del Novecento avevano già fatto lo stesso percorso, passando dalla scomposizione e dall’astrazione cubista alla ricomposizione della figura e a una nuova classicità in cui venivano presi a modello l’antico e la tradizione italiana. Non solo i dipinti, le sculture o l’architettura, ma anche le opere di grafica e i manifesti diventarono parte integrante dell’immagine della città moderna.
Il Novecento passò dall’arte alta agli oggetti della vita quotidiana, dove si respirava la stessa atmosfera di ritorno alla misura classica, anche nella manipolazione di materiali preziosi. Lo testimoniano gli splendidi mobili e gli altri oggetti di arredo disegnati da Piacentini, Cambellotti, Pagano, Montalcini, Muzio, Gio Ponti e i gioielli realizzati da Alfredo Ravasco. Mai come nel Novecento anche le vicende della moda si intrecciarono e si identificarono con quelle della cultura e della politica, originando, tra il sogno parigino e l’autarchia, la prospettiva della grande moda italiana.

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2012 - Wildt. L'anima e le forme tra Michelangelo e Klimt

Wildt è il genio dimenticato del Novecento.
 


Il crescente interesse da parte del grande collezionismo internazionale e la sua presenza in mostre di particolare rilievo organizzate dai maggiori musei del mondo costituiscono un segnale decisivo della riscoperta di Adolfo Wildt (Milano 1868–1931), oggi finalmente e giustamente riconsiderato tra i massimi scultori del Novecento europeo. Nonostante i riconoscimenti e la fama raggiunti in vita - gli fu assegnata senza concorso ma per chiari meriti la cattedra di scultura nella prestigiosa Accademia di Brera a Milano e fu nominato Accademico d’Italia, entrando così nell’esclusivo pantheon delle glorie nazionali - il suo apprezzamento da parte della critica è rimasto controverso.
 


Estraneo al mondo delle avanguardie e anticonformista, capace di fondere nella sua arte classico e anticlassico, Widt è un caso unico in questo suo essere in ogni istante tutto e senza luogo. Il passato non è più un flusso lineare di cose trascorse ma, come insegna Baudelaire, un tempo nuovo, decadenza e modernità insieme, una vasta landa di significati cristallizzati – Egitto e Grecia, Gotico e Rinascimento – che sopravvivono uno accanto all’altro, disponibili all’uso e al rischio dell’interpretazione.
 


La sua incredibile eccellenza tecnica e lo straordinario eclettismo furono attaccati sia dai conservatori - che non lo vedevano allineato per i contenuti ancora pervasi dal Simbolismo e per le scelte formali caratterizzate da richiami gotici ed espressionisti estranei alla tradizione mediterranea e all’arte di regime - sia dai sostenitori del moderno che mettevano in discussione la sua fedeltà alla figura, la vocazione monumentale, il continuo dialogo con i grandi scultori e pittori del passato, e la predilizione della scultura intesa come esaltazione della tecnica e del materiale tradizionalmente privilegiato, il marmo, che lui sapeva lavorare raggiungendo effetti davvero sorprendenti, sino alla più elevata purificazione dell’immagine. Questi aspetti, che ne hanno condizionato per lungo tempo la fortuna, esercitano oggi su di noi un nuovo fascino che solo una grande mostra può finalmente restituire. Partendo dall’eccezionale nucleo di opere conservate a Forlì, dovute al mecenatismo della famiglia Paulucci di Calboli, protagonista della storia della città e della storia nazionale, è oggi possibile radunare una serie di straordinari capolavori di Wildt e ricostruire il percorso più completo della sua produzione sia scultorea, sia grafica.


 
L’idea che governa questa esposizione è quella non di una rassegna di carattere monografico, ma di un percorso che (come nel caso della recente mostra di Forlì su Canova) metta in relazione profonda le sue opere con quelle degli artisti - pittori e scultori - del passato (Fidia, Cosmè Tura, Antonello da Messina, Dürer, Pisanello, Bramante, Michelangelo, Bramantino, Bronzino, Bambaia, Cellini, Bernini, Canova) e i moderni (Previati, Dudreville, Mazzucotelli, Rodin, Klimt, De Chirico, Morandi, Casorati, Martini, Messina, Fontana, Melotti) con cui si è intensamente e originalmente confrontato, attraversando ambiti e momenti diversi della vicenda artistica.

I temi da lui privilegiati, come quelli del mito e della maschera, gli consentirono di dialogare anche con la musica (Wagner) e la letteratura contemporanea, da D’Annunzio (che fu suo collezionista) a Pirandello e Bontempelli; così, da ritrattista eccezionale quale era, i magnifici busti colossali di Mussolini, Vittorio Emanuele III, Pio XI, Margherita Sarfatti, Toscanini, e di tanti eroi di quegli anni, ha saputo creare un Olimpo di inquietanti idoli moderni.


Grazie al suo insegnamento a Brera e alla sua originalissima idea di scultura, che non escludeva la ricerca polimaterica e una erosione anche dall’interno della forma alla conquista di nuovi effetti volumetrici e spaziali, la sua eredità la ritroviamo nelle opere dei suoi allievi prediletti, Lucio Fontana (dal 1927) e Fausto Melotti (dal 1928), destinati a diventare i protagonisti di un nuovo modo di concepire la forma. I “tagli” o le occhiaie scavate e dorate dei volti di Wildt anticipano in maniera sorprendente i famosi “tagli” di Fontana.
 


I lunghi studi di Paola Mola, indiscussa conoscitrice dell’artista (che cura, insieme a Fernando Mazzocca e Antonio Paolucci, questa mostra), la disponibilità dei documenti e delle splendide fotografie d’epoca dell’Archivio Scheiwiller (il grande editore milanese che per via familiare ha ereditato molte opere e materiali di Wildt), consentono una ricostruzione dettagliata e davvero affascinante della biografia, delle relazioni, delle committenze europee di questo protagonista assoluto di un periodo che del resto a Forlì e nel territorio ha lasciato testimonianze di scultura (Boifava, Drei), di urbanistica e di architettura (Bazzani, Valle) di straordinario livello.
 


Ancora una volta il percorso espositivo si articolerà all’interno delle grandi sale che costituirono la biblioteca del Convento di San Domenico e nelle stanze del piano terra dove si sono tenute le sei precedenti mostre. La mostra è ideata e realizzata dalla Fondazione della Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì e i Musei San Domenico.
 
 

2011 - Melozzo da Forlì. L'umana bellezza tra Piero della Francesca e

Attraverso questa mostra la città di Forlì intende celebrare il suo artista più famoso, raccogliendo per la prima volta la totalità delle sue opere mobili. Se già inpassato (1938, 1994) Melozzo è stato oggetto di importanti manifestazioni espositive, non si è infatti è mai potuto presentare un numero significativo di opere superstiti, né si era condotta una riflessione sul ruolo centrale svolto dall'artista forlivese nella vicenda del Rinascimento italiano, preferendo studiarne la personalità nel contesto romagnolo.
 
Già ricordato come pittore in un documento del 1462, Melozzo degli Ambrogi si era ben presto allontanato da Forlì per attingere ai centri più vitali del Rinascimento, da Padova a Urbino e Roma, dove sarebbe divenuto l'artista dipunta negli anni dei pontificati di Pio II e Sisto IV. La conoscenza di Mantegna e soprattutto di Piero della Francesca lo avevano portato ad aderire alle nuove certezze della prospettiva matematica, salvo poi intraprendere, a partire dal colossale affresco nell'abside della chiesa dei Santi Apostoli a Roma (1472-1474), di cui si conservano straordinari frammenti nella Pinacoteca Vaticana e al Quirinale, una personale ricerca sulla bellezza della figura umana, in grado non solo di possedere lo spazio entro cui si colloca, ma di imporsi come canone di una perfezione formale su tutto il creato. Su questa base si è potuto di recente affermare che «senza Melozzo difficilmente si  spiegherebbe Raffaello» (Antonio Paolucci). Ed è appunto entro questa prospettiva, di immensa portata per l'arte moderna, che la mostra intende studiare la figura di Melozzo, restituendola alla sua dimensione più autenticae innovante. Da un lato appunto la ricerca matematica di Piero della Francescae dall'altro la bellezza ideale di Raffaello, quale punto d'arrivo di una ricerca alla quale Melozzo seppe dare un contributo del tutto originale.
 
Per documentare lo straordinario percorso compiuto dall'artista forlivese, la mostra affianca alle sue opere capolavori degli artisti con cui venne in contatto nel corso della sua formazione, da Andrea Mantegna a Piero della Francesca, a Bramante e a Pedro Berruguete, questi ultimi conosciuti a Urbino.Ne segue poi l'attività a Roma, dapprima ai Santi Apostoli e poi nella Biblioteca Vaticana (Sisto IV nomina il Platina prefetto della Biblioteca, 1476, Pinacoteca Vaticana), affiancandole le opere degli artisti con cui venne in contatto nella città dei papi, dal BeatoAngelico a Mino da Fiesole a Bartolomeo della Gatta e a Antoniazzo Romano.
A Roma Melozzo si trovò altresì implicato nella riproduzione di immagini sacre di antica devozione, il cui studio si riflette nel Salvatore della Galleria Nazionale di Urbino e nel. San Marco dell'omonima chiesa romana. Nello stesso tempo, forte dell'appoggio della famiglia Riario, seppe dar voce alle ambizioni culturali della corte pontificia, che richiamava in quegli anni artisti da tutta Italia, tra i quali Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino, dei quali  sono presentate in mostra importanti testimonianze; così come viene documentato, attraverso arredi, paramenti liturgici e codici miniati, lo sfarzo straordinario dell'arte papale. Dopo i lavori nella sagrestia di San Marco del  santuario della Madonna di Loreto (1484-1493), lasciata inspiegabilmente incompiuta, Melozzo fece ritorno a Forlì, dove lavorò nella cappella Feo in SanBiagio, purtroppo distrutta dall'ultima guerra, in cui gli si affiancò l'allievo Marco Palmezzano.
 
Più che insistere sul seguito locale, di tono riduttivo e provinciale, la mostra apre a questo punto in direzione di Raffaello, di cui presenta un numero cospicuo di opere scelte al fine di dimostrare quanto il precedente di Melozzo si riveli appunto importante per l'artista urbinate.
Curatori della mostrae del catalogo sono Antonio Paolucci, Daniele Benati e Mauro Natale.
Si prevede l'esposizione di circa cento opere, provenienti da importanti musei italiani estranieri. L'allestimento sarà curato da Studi Wilmotte et Associes di Parigi e Lucchi & Biserni di Forlì. Il percorso espositivo si articolerà all'interno delle grandi sale che costituirono la biblioteca del Convento di San Domenico e nelle stanze del piano terra dove si sono tenute le cinque precedenti mostre.
 
 

2010 - Fiori. Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh

Con l’Ebe di Canova, la cui valorizzazione è stata l’occasione della recente mostra dedicata a “Canova, l’ideale classico tra scultura e pittura” e della conseguente riscoperta di Forlì come “Città canoviana”, la magnifica “Fiasca fiorita” è l’opera più celebre conservata nei Musei del San Domenico. 
Considerata una della più belle natura morte di tutti i tempi, la “Fiasca fiorita” di Forlì è un dipinto di cui non è stato ancora risolto il mistero. Non è stato, infatti, identificato il suo autore. Sono stati fatti molti nomi, tutti più o meno plausibili, tra cui quelli che appaiono più vicini alla realtà restano Caravaggio e Cagnacci. 


Anche se il quesito è, probabilmente, destinato a rimanere insoluto, una cosa è certa: si tratta di un quadro eseguito non da uno specialista - cioè da un pittore che riproduceva solo fiori, appartenente al gruppo dei cosiddetti “Fioristi” - ma da un grande maestro appartenente alla categoria, allora considerata la più prestigiosa, dedita alla rappresentazione della figura umana, quindi alla pittura sacra, a quella di storia e al ritratto. 

Attorno e a partire da questo capolavoro, alcuni tra i più importanti studiosi - Antonio Paolucci, Daniele Benati, Fernando Mazzocca, Alessandro Morandotti - hanno elaborato il progetto di una mostra che intende riproporre, da un punto di vista e con approccio metodologico del tutto nuovi, la storia della pittura di fiori, tra il naturalismo caravaggesco (cioè dalla fine del Cinquecento) e l’affermazione della modernità con Van Gogh e il simbolismo, giungendo così alle soglie del Novecento, prima della comparsa delle avanguardie storiche. 

I capolavori di Cagnacci, Gentileschi, Dolci e di altri grandi pittori di storia che hanno eccezionalmente dipinto quadri di fiori, ma anche lo straordinario caso di Rembrandt nello strepitoso ritratto della moglie come Flora, aiuteranno se non a risolvere, ad avvicinarsi al mistero, che è poi racchiuso nel segreto della sua straordinaria bellezza, della “Fiasca fiorita” di Forlì.


 
Le opere selezionate saranno la dimostrazione di come i quadri di fiori o i quadri di figura, dove l’elemento floreale assume un rilievo simbolico e formale eguale se non superiore alla figura, abbiano raggiunto un’intensità e una originalità estetica assai superiore alla convenzionalità che caratterizza la pittura dei “Fioristi”. 

Rispetto al Settecento, quando il tema sembra scomparire, si verifica una forte e decisiva ripresa nel corso dell’Ottocento. Mentre gli specialisti riducono la pittura di fiori a una produzione altamente specifica, ma inevitabilmente commerciale, sono proprio i protagonisti dei grandi movimenti della pittura moderna, dal Romanticismo al Realismo, dall’Impressionismo al Simbolismo, a reinventare il genere dandogli un nuovo significato.

Appiani, Runge, Hayez, Delacroix e Courbet, Bazille e Fantin-Latour, Manet e Monet, Cézanne e Renoir, De Nittis, Boldini e Zandomeneghi, Böcklin e Klimt, Van Gogh e Previati saranno rappresentati con quadri di fiori o di figure caratterizzati spesso proprio dalla ripresa di motivi seicenteschi, ma ispirati soprattutto dalla volontà, tutta moderna, di scardinare la gerarchia dei generi, sostituendo ai valori del contenuto quelli della forma, unendo a nuove valenze simboliche (come accade anche in letteratura, se solo pensiamo ai Fleurs du Mal di Baudelaire) la magia della pura visione dell’occhio dell’artista che registra le impressioni della natura e crea una nuova realtà superiore, quella dell’arte.


 

Come la grande mostra canoviana del 2009 ha riscoperto i fondamentali rapporti tra Canova e Forlì, anche questa volta la prima parte della rassegna intende approfondire la continuità degli interessi botanici nella società e nella cultura forlivese tra il prezioso giardino fatto allestire da Caterina Sforza alla fine del Quattrocento e il prestigio raggiunto a livello mondiale dal botanico Cesare Majoli (1746 – 1823). Le sue tavole illustrate di fiori saranno confrontate con i dipinti di alcuni dei maggiori “Fioristi” tra Sette e Ottocento.

Curatori della mostra e del catalogo sono Antonio Paolucci, Daniele Benati, Fernando Mazzocca e Alessandro Morandotti; il prestigioso comitato scientifico è presieduto da Antonio Paolucci.

Curatori dell’allestimento sono gli Studi Wilmotte et Associes di Parigi e Lucchi & Biserni di Forlì.

Il percorso espositivo si articolerà all’interno delle grandi sale che costituirono la biblioteca del Convento di San Domenico e nelle stanze del piano terra dove si sono tenute le quattro precedenti mostre.

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2009 - Canova. L'ideale classico tra scultura e pittura

Gli addetti ai lavori probabilmente lo sanno, il pubblico verosimilmente no. Non è noto che Forlì, e con Forlì le Romagne, furono luoghi fondamentali per Canova e, in generale, per il neoclassico in pittura e scultura.

Una grande (e l’aggettivo, una volta tanto, è del tutto appropriato) rassegna ne darà conto al San Domenico, a partire dal 25 gennaio 2009. Si tratta della mostra “Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura” promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, curata da Antonio Paolucci, Fernando Mazzocca e Sergéj Androsov e con l’allestimento di Wilmotte e Alessandro Lucchi.

“Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura” si configura come la più impegnativa e completa esposizione sino ad oggi dedicata al maestro veneto, dopo quella di Venezia del 1992.
 
A Forlì si potranno ammirare 160 opere. 

Attraverso una serie di capolavori esemplari, l’esposizione forlivese ripercorrerà l’intera carriera del “moderno Fidia”, ponendo per la prima volta a confronto le sue opere (marmi, gessi, bassorilievi, bozzetti, dipinti e disegni), oltre che con i modelli antichi cui si è ispirato, anche con i dipinti di artisti a lui contemporanei con i quali si è confrontato. 

Da Canova al grande neoclassicismo internazionale, con un focus di partenza – Forlì - ben localizzato ma non locale. Una mostra che spazierà dalla scultura alla pittura, proponendo anche alcuni, altissimi confronti con Raffaello e Tiziano, e altri capolavori di quel “classico” che fu fonte di ispirazione per molti artisti tra l’ultimo Settecento e il primo Ottocento.


 
Per Forlì, Canova creò tre capolavori. Innanzitutto una versione di Ebe, una delle sue opere più popolari, realizzata tra il 1816 e il 1817 per la contessa Veronica Guarini. A precedere Ebe, nel 1814, fu la Danzatrice col dito al mento, destinata al banchiere Domenico Manzoni e andata dispersa dopo la morte del proprietario in un atroce fatto di sangue, il cui mistero rimane ancora insoluto. La vicenda verrà sublimata dallo stesso Canova nella bellissima Stele funeraria di Domenico Manzoni ancora conservata nella chiesa della Santissima Trinità. 

Il confronto tra le due diverse versioni di Ebe, quella di Forlì e quella dove la figura è rappresentata su una nuvola, appartenuta all’Imperatrice Giuseppina moglie di Napoleone, evidenzia come il grande scultore seppe trasporre nel marmo l’audace motivo della figura in volo.

Per capire la nascita di questo capolavoro, la prima e la seconda Ebe saranno collocate, scenograficamente, in sequenza con due capolavori della scultura antica: L’Arianna con la pantera, allora agli Uffizi e oggi al Museo Archeologico di Firenze, e la straordinaria Danzatrice di Tivoli, opera ellenistica cui Canova si è ispirato. E ancora, in un accostamento mozzafiato, con il Mercurio volante di Giambologna, il capolavoro assoluto dello sculture cinquecentesco.

Alle pareti le diverse rappresentazioni dipinte di Ebe, un tema prediletto dai maggiori pittori neoclassici stranieri (Reynolds, Romney, West, Hamilton, Vigée Le Brun) e italiani (Lampi, Pellegrini, Landi), creeranno un fantastico gioco di rimandi tra la pittura e la scultura, in un esaltante gara fra la due arti in cui proprio la scultura, grazie al genio di Canova, risulta vittoriosa.


 
Canova associava la bellezza eterna di Ebe, simbolo di una giovinezza ancora incontaminata, a quelle di altre divinità come Amore e Psiche, capolavoro presente nella sezione successiva, accanto ad altri suoi capolavori opportunamente confrontati con le creazioni di pittori come Giani, Landi, Angelica Kauffmann, Hayez che si sono cimentati sugli stessi temi, negli stessi anni.

Ancora la raffigurazione dinamica della figura che si muove nello spazio sarà il motivo dominante della sezione dedicata alla Danzatrice, anch’ essa appartenuta all’Imperatrice Giuseppina e ora all’ Ermitage, confrontata con le magnifiche Danzatrici di Hayez e soprattutto con le figure danzanti presenti nelle grandi tempere, capolavori assoluti di Canova pittore, che finalmente restaurate rivelano per la prima volta non solo la loro commovente bellezza ma i segreti della loro tecnica davvero unica.


 
Dopo questa ampia sezione dedicata alla musica e alla danza, dove comparirà anche la celebre Tersicore, la statua in movimento di Orfeo, concessa dall’Ermitage, ci introduce alla straordinaria sezione dedicata allo “Scultore filosofo”. Ad essere qui indagato sarà il Canova che ha saputo confrontarsi con il tema metafisico della morte, come nelle stele funerarie in marmo, ispirate a quelle attiche, messe a confronto con analoghe rappresentazioni in pittura e con i drammatici bassorilievi sulle ultime ore di Socrate.

La grandezza di Canova, già in vita celebrato come il più grande scultore di tutti i tempi per avere riportato nel mondo la perfezione della scultura greca, sarà testimoniata da prestiti assolutamente eccezionali. Come i due colossali Pugilatori dei Musei Vaticani, ispirati ai due Dioscuri del Quirinale, su cui il giovane Canova si arrampicò tante volte per studiarli. O come la Venere Italica di Palazzo Pitti, la dea moderna tanto amata da Foscolo che la riteneva superiore a quella antica dei Medici. O ancora la Maddalena, capolavoro per il quale Canova trovò ispirazione in Tiziano.

Questo ultimo capolavoro sarà considerato dai romantici la sua opera più bella e per questo divenne motivo di ispirazione per Hayez la cui Maddalena, che sarà accostata a quella di Tiziano e Canova, rivela nella sua sconvolgente sensualità come, non uno scultore, ma il celebre pittore del Bacio possa considerarsi vero erede di Antonio Canova.
 
 

2008 - Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni

Dopo le mostre dedicate a “Marco Palmezzano, il Rinascimento nelle Romagne” e a “Silvestro Lega, i Macchiaioli e il Quattrocento”, la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì intende promuovere in collaborazione con l'Amministrazione comunale di Forlì e la Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per le Province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, un altro grande evento espositivo dedicato al pittore Guido Cagnacci.
 
L'esposizione che ha per titolo Guido Cagnacci. Protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, si apre a Forlì il 20 gennaio 2008, presso i Musei San Domenico.
 
Nato a Santarcangelo di Romagna nel 1601 e morto a Vienna nel 1663, Guido Cagnacci seppe combinare in una cifra di grande qualità inventiva i diversi spunti che gli derivarono dalla conoscenza da un lato del naturalismo di ceppo caravaggesco e dall'altro dell'idealismo reniano, così da ricavarne un profilo e una personalità che si sottrae alle classificazioni correnti.
 
La mostra costituisce la più grande monografica nazionale dedicata al pittore. La mostra ricostruirà gli inizi della sua attività nella sua terra natale, già toccata da fermenti naturalistici, per poi accompagnarlo a Roma, dove Cagnacci si recò a più riprese in compagnia di Giovan Francesco Barbieri (il Guercino), venendo in contatto con le opere del Caravaggio e dei suoi seguaci. In questo modo egli maturò convinzioni che si esplicano intanto nelle bellissime opere sacre realizzate per le chiese riminesi e che non verranno meno neanche quando la fama ormai raggiunta lo portò a Bologna, dove si misurò con i risultati raggiunti da Guido Reni, promotore di una pittura fortemente idealizzata da cui Cagnacci desume una nuova monumentalità ma senza che le sue immagini perdano fisicità e spessore carnale.
 
Per evidenziare le peculiarità di tali esperienze, la mostra affiancherà ai capolavori giovanili di Cagnacci dipinti del Caravaggio e dei suoi seguaci, da Vouet a Van Honthorst a Serodine ad Orazio e Artemisia Gentileschi, nonché di Guido Reni e di Guercino.
 
Attenzione sarà dedicata altresì al contesto in cui si svolse la sua prima attività attraverso la presentazione di opere degli artisti romagnoli che gli si affiancarono e ne svilupparono i modi (Cristoforo Serra, il “Centino”). Adeguata importanza sarà poi data all'attività di Cagnacci per Forlì, dove eseguì per il Duomo le grandi tele con la Gloria di San Mercuriale e di San Valeriano.
 
 

2007 - Silvestro Lega. I Macchiaioli e il Quattrocento

Dal 14 gennaio al 24 giugno 2007, nel ritrovato San Domenico saranno allineate tutte le opere più conosciute del grande macchiaiolo nato proprio nel forlivese, a Modigliana, nel cuore della cosiddetta “Romagna toscana”.


 
Accanto ai capolavori più celebrati dell’artista, la mostra proporrà una attentissima selezione di opere meno note o del tutto inedite, qui riunite grazie all’organico lavoro di preparazione coordinato da Antonio Paolucci, Fernando Mazzocca e Giuliano Matteucci, affiancati da Carlo Sisi, Maria Vittoria Marini Clarelli e Luisa Arrigoni.
 


La scelta dei curatori e degli organizzatori (Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì) è stata quella di privilegiare un percorso espositivo di assoluta qualità, contenendo a 60 le selezionatissime opere di Lega, in modo da offrire non solo il meglio del meglio dell’artista ma anche la possibilità, per il pubblico, di osservare con agio i capolavori esposti, entrando così nei luoghi, nei colori, nelle passioni dell’artista.


 
Silvestro Lega è stato, con Giovanni Fattori e Telemaco Signorini, l’indiscutibile protagonista di quella fondamentale esperienza della pittura italiana dell’Ottocento che ha riunito, sotto l’etichetta di Macchiaioli, artisti di varia provenienza che trovarono a Firenze e nella campagna toscana l’ambiente più adatto per sperimentare un modo rivoluzionario di rappresentare la realtà. 
In mostra, in dialogo con le sessanta opere di Lega, vi saranno anche opere fondamentali di Fattori e Signorini, Cizeri, Banti, Borrani, Abbiati, Cecioni, Cabianca, Puccinelli e Zandomeneghi.


 
Del tutto originale il taglio che il Comitato Scientifico ha voluto dare all’esposizione, proponendo un raffronto tra Lega e i Macchiaioli e la pittura del Quattrocento ed in particolare con Ghirlandaio e Piero della Francesca. Questa sezione di raffronto godrà della presenza di una ventina di sublimi capolavori.
Il catalogo della mostra sarà edito da Silvana.
 
 

2006 - Marco Palmezzano. Il Rinascimento nelle Romagne

Attesa e annunciata da tempo, preparata da anni di ricerche e restauri, la mostra dedicata a Marco Palmezzano aprirà finalmente le porte a dicembre. La prima retrospettiva completa che l’Italia dedichi al grande maestro del Rinascimento sarà allestita dal 4 dicembre 2005 al 30 aprile 2006 (ma prorogata al 14 maggio), a Forlì nei locali riportati alla vita dello storico Complesso Monumentale di San Domenico.


 
In questi anni, i colori limpidi, dalla “purezza d’alabastro”, delle opere di Palmezzano sparse in Romagna e presenti nei più prestigiosi musei italiani e stranieri, sono emersi meravigliosamente sconvolgenti da una campagna di restauri che ha pochi precedenti per ampiezza ed organicità. 

A promuovere questo grande evento è la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì, con i Musei Vaticani, la Diocesi di Forlì e le Soprintendenze di Bologna, di Brera in Milano e il Polo Museale di Firenze. La commissione scientifica che “firma” la mostra è diretta da Antonio Paolucci e composta da Francesco Buranelli, Jadranka Bentini, Pier Giorgio Brigliadori, Gianfranco Brunelli, Matteo Ceriana, Anna Colombi Ferretti, Andrea Emiliani, Vincenzo Gheroldi, Gabriella Poma, Luciana Prati, Adriano Prosperi, Stefano Tumidei, Timothy Verdon, Giordano Viroli, Francesco Zaghini ed Ettore Torriani.
 
L’allestimento, che si snoderà nelle grandi sale di quella che fu la Biblioteca del Convento dei Domenicani, reca le firme degli Studi Wilmotte & Associates (Parigi) e Lucchi & Biserni (Forlì).

Più di 20 milioni di euro sono stati investiti per trasformare l’ex complesso conventuale di San Domenico, slabbrato dalle bombe, in una sede museale ed espositiva nuova per concezione e tecnologia, sede che proprio con la mostra sarà inaugurata. 

L’intero territorio forlivese, dall’Alpe di San Benedetto al mare, ovvero le cosiddette “Terre del Palmezzano”, è profondamente coinvolto in questa esposizione.

La mostra (catalogo Silvana Editoriale) presenta sessantuno opere, spesso di grandi dimensioni, dislocate fra gli anni novanta del Quattrocento e i venti del Cinquecento. 
L’obiettivo è quello di documentare la lunga, prolifica attività del pittore attraverso i suoi svolgimenti stilistici, attraverso le opere più significative dei suoi maestri, e dei suoi affini, e dei suoi compagni di strada.
Con amrco Palmezzano sono in mostra Melozzo da Forlì, Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, il Perugino, Antoniazzo Romano, Marco Zoppo, Baldassarre Carrari, il Maestro dei Baldraccani, Francesco e Bernardino Zaganelli, Luca Longhi, Nicolò Rondinelli, Girolamo Marchesi, Bartolomeo Montagna e Girolamo Genga.

“Lo stile di Marco Palmezzano – afferma Antonio Paolucci - è come una rosa dei venti i cui punti cardinali orientano verso i centri più significativi del Rinascimento padano e centro italiano. Alla base c’è Melozzo da Forlì con la sua interpretazione magniloquente e nobilmente retorica della poesia prospettica di Piero della Francesca e di Luca Pacioli, ma c’è anche il Giovanni Bellini della Pala di Pesaro e c’è, più in generale, la familiarità con la pittura veneziana contemporanea. Ci sono asprezze ferraresi e morbidi ritmi di matrice umbra. Ci sono tangenze e rispecchiamenti con gli artisti romagnoli contemporanei, da Niccolò Rondinelli a Baldassarre Carrari”.


 
Grazie a prestiti molto importanti (dai musei di Baltimora, Vienna, Dublino, dai Musei Vaticani, dagli Uffizi, da Brera, ecc.) la mostra ricostruisce il percorso di Marco Palmezzano, radunando per la prima volta dalla città e dal territorio di Forlì, dai musei italiani e stranieri il meglio della sua produzione. Un itinerario pittorico che ridisegna la storia artistica delle Romagne fra XV e XVI secolo.
 
 

 

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